"Le Donne Lo Sanno" (o "Muccino entra nella storia")
Il videoclip è un breve testo audiovisivo,
della durata media di tre-quattro minuti,
in cui si mette in scena per immagini una canzone,
in modo da poterla programmare in televisione.
(G. Sibilla)
Il giovane Silvio Muccino è uno dei più in vista sulla scena dei giovani attori italiani; figlio d'arte, ha recitato in molte produzioni del fratello Gabriele Muccino, con esiti alterni di critica e vendite.
Tra le qualità del giovane Silvio attore, la semplicità e l'iconificazione della figura del "ggiòvane" protagonista di vicende "ggiòvani" e legate al mondo dei "ggiòvani" in maniera ben più che stereotipica. Lungi dall'essere il Ninetto Davoli del 2000, Silvio è però un onesto attore per film italiani, figlio dei suoi tempi.
I guai iniziano quando gli attorini figli d'arte si mettono in testa di seguire le orme del fratello, convinti che basti un nome per fare un successo; alla giovane età di 24 anni, il Nostro ha deciso di cimentarsi nell'arte della regia con il videoclip del brano di Luciano Ligabue, "Le Donne Lo Sanno". Probabilmente il fratello lo avrà così apostrofato: "A' Silvio, prova un po' a fa' questo, la canzone tira, vedemo che n'esce".
Il geniale Silvio si trovava a disposizione un set di elementi di primo livello; una canzone che, così com'è, ha un ritmo di per sè veloce e trascinante (merito a mio avviso soprattutto degli accordi di chitarra funkeggianti in levare), un apparato tecnico senza compromessi ed un nome alle spalle che gli avrebbe garantito controllo, se non completo, perlomeno abbondante sulle fasi produttive (non a caso lo storyboard è suo).
Sarebbe bastato prendere in spalla la telecamera, filmare un quarto d'ora di prove o live della band, montare un'oretta il tutto ed il videoclip sarebbe uscito pulito, liscio e funzionale alla canzone (che, come già detto, già si reggeva in piedi da sola). Il grande Silvio invece è riuscito in un'impresa difficile, riservata all'Olimpo della regia di tutti i tempi, ha scalato il Parnaso delle produzioni cinematografiche, si è garantito il nome in tutti i libri di storia del cinema, ha lasciato traccia indelebile del suo passaggio nella storia per la caratteristica del suo rivoluzionario videoclip: è riuscito a rallentare la canzone.
Anche lo studente più sfaccendato, ma che dico, anche l'uomo più ignorante sa che il videoclip è frammentato per velocizzare il ritmo, adotta particolari accorgimenti per far identificare emotivamente lo spettatore, è una forma di facile comprensione che non deve annoiare anche a visioni successive; Silvio Muccino no. Silvio Muccino, telecamera in spalla, ha stabilità d'imperio di essere il nuovo Eisenstein della cinematografia del nuovo millennio.
Troppe sono le cadute di stile del videoclip per poter parlare di una semplice disattenzione: è un procedimento sistematico, che probabilmente si situa in un tentativo (naufragato) di creare una maniera di espressione personale. Ma la più commerciale tra le forme cinematografiche mal si presta a costruzioni concettuali ardue, essendo rivolta a tutti i tipi di pubblico.
Come spiegarsi altrimenti le scene della band, in cui le riflessioni ed i flares sono più in vista della band stessa? Come giustificare le continue sfocature, funzionali più al mal di testa dello spettatore che ad un'identificazione mistica dello stesso? Come concepire il fish-eye (ottenuto con un obiettivo grandangolare molto accentuato) rallentato, che tra l'altro mostra, sembrando più un errore che una scelta voluta, il carrello ed i riflettori usati per le riprese? Ed un Ligabue truccato ed illuminato da sembrare 20 anni più vecchio?
Ma la vera chicca, che erge Silvio Muccino a monito perpetuo per le future generazioni di registi, sono le riprese in esterna: lente, quadrate, banali, bislacche e pecorecce (come chiamare altrimenti quelle della conclusione del video?), sono a mio avviso le principali responsabili del rallentamento del video. Con una fotografia afosa, tra le più banali che si siano mai viste in un videoclip, le inquadrature dell'aereo sono un capolavoro di cattivo gusto; come spiegarsi altrimenti l'insistenza sul dettaglio dell'aereo con i denti aerografati? Nulla, se non una endemica mancanza di stile del giovane regista romano.
Attenzione merita anche la storia rappresentata nel videoclip, di un'originalità senza pari. Quattro donne effettuano due lanci con il paracadute. Otto parole per riassumere quattro minuti e ventuno. Ma della spettacolarità e dell'emozione cinetica di un lancio non c'è nulla. Ci sono solo quattro corpi in caduta libera, più somiglianti a bruni sacchi di patate che a candide farfalle.
Che dire? Soltanto un velo di tristezza per l'ennesima occasione mancata, per il perpetuarsi del baronato familiare anche negli ambienti artistici, per i mezzi in mano a chi non li sa usare, quando fuori dalla porta schiere di indipendenti, magari con idee notevoli, fanno la fila per le briciole.